Beata Eurosia Fabris, una mamma straordinaria a servizio della famiglia
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Papa Pio XII disse: ''Bisogna far conoscere quest'anima bella, ad esempio delle famiglie di oggi!''
di Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini
Eurosia Fabris nacque il 27 settembre 1866 a Quinto Vicentino, grosso Comune a otto chilometri da Vicenza. I suoi genitori, Luigi e Maria Fabris, la portarono al fonte battesimale della chiesa parrocchiale di Quinto Vicentino tre giorni dopo la nascita.
Insieme ai sette figli si trasferirono, nel 1870, a Marola, sempre in provincia di Vicenza. Qui Rosina, come era chiamata in famiglia, frequentò solo le prime due classi elementari, perché poi dovette aiutare i genitori nei lavori dei campi. In quel tempo, in cui l'analfabetismo femminile superava il 75%, fu comunque una fortuna per lei poter imparare a leggere, scrivere e far di conto; la lettura fu la sua passione.
Crebbe nel clima cristiano della famiglia, che ogni sera si riuniva per recitare il rosario. Condusse la sua adolescenza e giovinezza nella preghiera, nel lavoro, nella semplicità e nell'innocenza. Completò la sua formazione con la lettura di libri utili, in particolare studiando il catechismo e la «Storia Sacra». Insegnò il catechismo nella parrocchia di Marola alle fanciulle e in seguito insegnò nella sua casa l'arte del taglio e cucito alle giovani.
IL MATRIMONIO COME GESTO DI CARITÀ
Nel 1885, quando Rosina aveva 19 anni, accadde una disgrazia nella casa dei suoi vicini: una giovane sposa, Stella Fiorina Fattori, moriva di un male incurabile, lasciando vedovo Carlo Barban di 23 anni, con due figliolette, Chiara Angela e Italia, di 20 e 4 mesi. Assieme a loro vivevano il nonno Angelo anziano e ammalato e il fratello di Carlo ancora minorenne, Benedetto.
La situazione colpì profondamente la giovane Rosina: quando le fu chiesto aiuto per le faccende domestiche, accettò ben volentieri, concentrando soprattutto le sue cure sulle piccole, bisognose di affetto. La sua opera, del tutto gratuita, continuò per tre mesi.
Un giorno, Carlo Barban le presentò la sua proposta di matrimonio. Rosina prese tempo, pregò e si consigliò con i suoi parenti e con il parroco di Marola. Alla fine accettò, per poter accudire come una mamma le piccole orfane e adempiere quindi la volontà di Dio, cui tante volte aveva chiesto di manifestarsi.
Il matrimonio venne celebrato il 5 maggio 1886 nella loro chiesa parrocchiale di Marola, situata nella frazione di Torri di Quartesolo; tutti lo considerarono uno squisito gesto di carità.
Entrando nella famiglia Barban, Eurosia Fabris era cosciente che non andava a "fare la signora". Il marito Carlo possedeva dei buoni e produttivi campi, ma suo padre Angelo si era lasciato truffare, lasciando il figlio in una pesante situazione debitoria.
Rosina aveva capito il valore della povertà: considerava che anche Gesù era stato povero, eppure era il padrone del mondo. Amava che la casa fosse pulita e in ordine, ma si percepiva che si trattava di una povertà dignitosa. Pur vivendo in tempi di una forte crisi economica e sociale, ma Eurosia confidò sempre nell'aiuto di Dio.
UNA FAMIGLIA NUMEROSA
Intanto la sua famiglia aumentava: perse i primi due bambini, ma cercò conforto recandosi in pellegrinaggio al santuario della Madonna di Monte Berico. Là, mentre pregava, ebbe la certezza che Dio la voleva madre di molti figli, di cui tre sacerdoti.
Ne ebbe quindi altri sette, cui si aggiunsero, nel 1917, altri tre orfani di una nipote, Sabina, morta mentre il marito era al fronte nella prima guerra mondiale. Nessuno dei parenti voleva occuparsene, ma Eurosia e Carlo non ebbero tentennamenti e li accettarono in casa.
Al marito, preoccupato di come si poteva andare avanti, lei rispondeva: «Coraggio Carlo, pensiamo che il Signore ci vede e ci ama; penserà lui a toglierci dalle necessità; ci soccorrerà di certo, almeno per i nostri bambini, egli che ama tanto l'innocenza».
Oltre a questo, spesso faceva da balia a bambini le cui madri non potevano allattarli; a volte si trovava con tre bambini contemporaneamente. Distribuiva ai più poveri, latte, uova, minestra, che portava personalmente di nascosto; si può dire che se lo togliesse di bocca per donarlo.
In effetti Eurosia visse nei primi decenni del Novecento, che furono caratterizzati da una forte crisi economica, da tanta povertà, con l'emigrazione e con le conseguenze della guerra del 1915-18. Il denaro era scarso e le famiglie bisognose numerose; non esisteva ancora la Previdenza Sociale.
Dal canto suo, faceva quello che poteva, non con i soldi che mancavano, ma con i prodotti dell'orto e del pollaio. Persuase spesso il marito ad alloggiare i pastori o i pellegrini di passaggio: quasi ogni notte, nel fienile o nella stalla, c'erano persone che dormivano e, alle quali forniva anche la cena.
Una volta, dopo aver accolto una famiglia di pastori, si attivò per aiutare una donna, che aveva partorito un bambino nella stalla. I coniugi Barban accolsero quella famiglia per tre giorni nella loro casa.
I FIGLI DI MAMMA ROSA
Della numerosa famiglia, tra figli suoi e adottati, due, come già detto, morirono in tenera età. I primi tre maschi, Giuseppe, Secondo e Matteo Angelo, scelsero il sacerdozio: i primi due divennero preti diocesani, il terzo francescano, con il nome di padre Bernardino.
Carlo fu contento di lasciar andare Secondo, ma per Giuseppe fu inizialmente contrario: voleva che restasse a dare una mano in famiglia lavorando i campi. Non avendo denaro per la retta, i ragazzi da principio frequentarono il ginnasio da esterni.
Tutte le mattine mamma Rosa, come ormai la chiamavano tutti, si svegliava presto, per preparare la colazione ai due figli, che poi si recavano a piedi da Marola al Seminario di Vicenza; poi usciva per assistere alla Messa. Al ritorno preparava la colazione per tutti gli altri, che si erano svegliati nel frattempo. Oltre alle faccende domestiche, dedicava il resto del tempo libero al lavoro di sarta fino a tarda sera, per contribuire al vacillante bilancio familiare.
Chiara Angela, la prima figlia di primo letto di Carlo, entrò fra le Suore della Misericordia di Verona chiamandosi suor Teofania. L'ultimo nato, Mansueto, entrò in seminario, ma morì di meningite a quattordici anni, mentre frequentava la terza ginnasio. Uno dei tre figli della nipote, Mansueto, non volle distaccarsi da Eurosia dopo che il padre era tornato dalla guerra; divenne poi fra Giorgio.
Gli altri sei figli, compresi quelli temporaneamente accolti in casa, scelsero la via del matrimonio. A tutti mamma Rosa insegnò a cercare senza sosta la volontà di Dio, se volevano salvarsi l'anima.
Il legame col francescanesimo da parte di Eurosia non si limitò all'appartenenza dei figli diventati frati: lei stessa, con il figlio Sante Luigi, entrò a far parte della fraternità del Terz'Ordine che si era formata nella sua parrocchia.
Fu sempre fedele alle riunioni, ma anche agli impegni di preghiera che i terziari portano avanti ancora oggi. Imparò a vivere in senso francescano anche la povertà che la circondava, come ha attestato la figlia Italia: «Mi pare che se fossi ricca non sarei contenta come sono adesso», le disse un giorno, aggiungendo: «Anche Gesù è stato povero, ed era il Padrone del mondo».
MODESTIA, PREGHIERA E MORTIFICAZIONI
A casa, poi, aprì una scuola di cucito, totalmente gratuita, che ospitava dalle otto alle quindici ragazze. Insieme alle tecniche di sartoria - gli abiti da sposa erano le sue creazioni migliori - insegnava loro come formare famiglie autenticamente cristiane e, intanto, conservare la virtù della purezza. Per questo motivo, non accettava di confezionare abiti che non fossero sobri come quelli che lei stessa indossava.
Oltre alle mortificazioni volontarie, che offriva specialmente per i peccatori, cercava di sopportare il mal di denti e il mal di testa, che spesso la colpivano. La sua preghiera era particolare per i sacerdoti, non solo per i suoi figli, e per il Papa.
Sopportava con pazienza, infine, i malumori del marito, cui dava del "voi" per rispetto, e le chiacchiere delle donne del vicinato.
Carlo Barban morì il 31 maggio 1930, preparato e assistito dall'affetto della moglie. Lei, dopo qualche tempo, riferì al figlio don Giuseppe: «Sì, stamattina nella Santa Comunione, Gesù mi ha detto che morrò tra 19 mesi...».
A partire dall'autunno 1931, in effetti, cominciò ad avvertire i primi sintomi di una poliartrite, che la bloccò a letto. Senza mai lamentarsi, si preparava serenamente al trapasso: «Se durante la vita si è fatto sempre il proprio dovere, la morte non fa proprio niente paura», commentava spesso.
Ai primi di gennaio 1932 una polmonite aggravò le sue condizioni e ricevette l'Unzione degli Infermi. Don Giuseppe, intanto, ottenne la facoltà di celebrare la Messa in camera della madre, che si andava spegnendo.
Nelle ultime ore di vita poté rivedere i figli e parecchi dei nipoti, cui diede la sua benedizione generale e consigli particolari. Infine si alzò di scatto sul letto e, sebbene con voce affannosa, ripeté: «Mio Dio, vi amo sopra ogni cosa!». Spirò alle 21.30 dell'8 gennaio 1932, poco dopo che le fu udito dire: «Nelle tue mani, Signore, raccomando l'anima mia».
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