C’è un momento, in entrambi i libri di Dolly Alderton che ho letto, in cui ho pensato “Beh, che banalità”. Quella banalità lì però, da un momento all’altro si trasforma in un dito che va a premere su un livido che pensavo di aver metabolizzato: ecco che mi ritrovo puntualmente a piangere su argomenti che pensavo essermi lasciata alle spalle, seppur con qualche inciampo. Dolly Alderton racconta sempre del mondo dei quasi grandi, quelli che ancora vivono con i sogni di bambini ma lanciati con una fionda nella realtà vera, quella delle difficoltà, delle disillusioni e dei lutti da elaborare. So che sono monotematica e ipocrita a “parlar male” dei cellulari o di chi ne fa le veci, ma dico, io mi sento una vittima di questo meccanismo malsano che sfocia nel ghosting, che semina il terrore dell’abbandono già insito in noi e lo fa crescere terrificantemente rigoglioso; prima non poteva trovare tutto questo concime (in questo caso inteso anche come merda metaforica, si intende), forse esisteva che qualcuno non si faceva più vivo e te ne dimenticavi prima, adesso invece tocca sorbirsi le giornate con le vibrazioni fantasma ad aspettare che spunti fuori, o la storia, o l’ennesima telefonata che non è la sua, o il tweet o che ne so io. Esistono troppi modi per farsi vivi, così finiamo per aggrapparci a tutto. Se pensate che poi quando hai 30 anni i tuoi compagni di scuola iniziano a fare figli, sposarsi o convivere cominci a sentire il doppio quella pressione sociale che ti sussurra che proprio proprio bene non stai andando e se ci metti che ti ritrovi a dare fiducia per mesi (o anni) ad una persona che poi si dilegua nel nulla, l’unica realizzazione che hai è quella di aver perso tempo. Tempo prezioso, che quando hai vent’anni te ne frega poco, quando ne hai trenta, per i motivi di cui sopra, sei alle porte coi sassi (che non so cosa voglia dire, ma si dice). Dolly Alderton può sembrare semplice, ma riesce a fottermi sempre.
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