La Gatta Cenerentola - Rivista e letta da Angela Villa
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Description
Rappresenta una delle redazioni più note della fiaba di Cenerentola, un racconto popolare tramandato sin dall'antichità in centinaia di versioni provenienti da diversi continenti. La fiaba all'origine de La gatta...
show moreLa versione di Basile presenta diverse varianti rispetto a Cendrillon di Perrault, su cui sono in gran parte basati il lungometraggio animato Cinderella del 1950 e le successive produzioni Disney: in particolare, l'eroina, di nome Zezolla, si macchia addirittura dell'omicidio della sua matrigna, che viene però poi sostituita da una nuova matrigna anche peggiore
Sesto passatempo della prima giornata
Zezolla è convinta dalla maestra ad ammazzare la matrigna e crede di essere tenuta in considerazione per averle fatto sposare il padre, ma è messa in cucina e, per virtù delle fate, dopo varie vicende, si guadagna un re come marito.
C’era, dunque, una volta un principe vedovo, il quale aveva una figlia che gli era così cara che non ci vedeva per altri occhi. Le aveva dato una brava maestra, che le insegnava le catenelle, il punto in aria, le frange e le dimostrava un affetto che non si può descrivere. Ma il padre si era risposato da poco e aveva preso una rabbiosa, malvagia e indiavolata femmina e questa maledetta cominciò ad avere in odio la figliastra, facendole cère brusche, facce storte, occhiate arrabbiate da fare paura. La povera fanciulla si lamentava sempre con la maestra dei maltrattamenti della matrigna, e le diceva: “Oh Dio, e non potresti esser tu la mammina mia, tu che mi fai tanti sorrisi e carezze?”. E tante volte le ripeté questa cantilena, che le mise una vespa nell’orecchio, e la maestra, accecata dal diavolo, una volta le disse: “Se farai come ti suggerisce questa testa matta, io ti sarò mamma e tu sarai la pupilla degli occhi miei” Stava per continuare , quando Zezolla (che così si chiamava la giovane) la interruppe: “Perdonami se ti rompo la parola in bocca. So che mi vuoi bene; perciò zitta e sufficit; insegnami l’arte, che io sono nuova: tu scrivi e io firmo”.
“Orsù! – replicò la maestra, – ascolta bene, apri le orecchie, e avrai sempre pane bianco di fior di farina. Quando tuo padre va fuori di casa, di’ alla tua matrigna che vuoi un vestito di quelli vecchi, che stanno nel cassapanca grande del ripostiglio, per risparmiare questo che porti addosso. Lei, che ti vuol vedere tutta cenci e brandelli, aprirà il cassone e dirà: – Tieni il coperchio. – E tu, tenendolo, mentre lei andrà rovistando là dentro, lascialo cader di colpo, che le romperà il collo. Dopo di ciò, sai bene che tuo padre farebbe carte false per amor tuo; e tu, quando egli ti carezza, pregalo di prendermi per moglie, ché, te beata, sarai la padrona della mia vita”. Udito il disegno, a Zolla ogni ora parve mille anni; e, messo in atto punto per punto il consiglio della maestra, quando fu trascorso il tempo del lutto per la morte della matrigna, cominciò a toccare i tasti al padre perché si sposasse con la sua maestra. Dapprima, il principe prese la cosa come uno scherzo; ma tante volte Zezolla tirò di piatto, che alla fine colpì di punta, ed egli si piegò alle parole della figlia. Così si sposò con la maestra Carmosina, e si fece una festa grande. Ora, mentre gli sposi stavano felici, Zezolla si affacciò a un terrazzino della sua casa; e in quel punto una colombella volò sopra un muro e le disse: “Quando ti vien desiderio di qualche cosa, manda a domandarla alla colombella delle fate dell’isola di Sardegna, ché tu l’avrai subito”. Per cinque o sei giorni la nuova matrigna ricoprì di carezze Zezolla, facendola sedere al miglior luogo della tavola, dandole i migliori bocconi e adornandola con i migliori vestiti. Ma, dopo pochissimo tempo, mandò al diavolo e scordò del tutto il favore ricevuto (oh triste l’anima, che ha cattiva padrona!), e cominciò a mettere al primo posto le sue sei figlie, che fin allora aveva tenute segrete; e tanto fece che il marito, presele in grazia, si fece cadere dal cuore la propria figlia. E Zezolla, perdi oggi, manca domani, finì col ridursi a tal punto che dalla camera passò alla cucina, dal baldacchino al focolare, dalle vesti di seta e oro agli strofinacci, dagli scettri agli spiedi. Né solo cambiò stato, ma anche nome, e non più Zezolla, ma fu chiamata “Gatta Cenerentola”. Ora avvenne che, dovendo il principe andare in Sardegna per cose necessarie al suo stato, prima di partire domandò a una a una, a Imperia, Calamita, Fiorella, Diamante, Colombina e Pascarella, che erano le sei figliastre, che cosa volevano che portasse loro al ritorno. E chi gli chiese un abito di lusso, chi nastri per i capelli, chi trucchi per il viso, chi giocattoli per passare il tempo; e chi una cosa e chi un’altra. In ultimo, e quasi per scherno, egli disse alla figlia: «E tu, che cosa vorresti?». Ed essa: «Nient’altro se non che mi raccomandi alla colomba delle fate, che mi mandi qualcosa; e, se ti dimentichi, che tu non possa andare né innanzi né indietro. Tieni bene a mente quel che ti dico: arma tua, mano tua». Partì il principe, sbrigò i suoi affari in Sardegna, comprò quanto gli avevano chiesto le figliastre, e si dimenticò di Zezolla. Ma, quando si fu imbarcato e già erano state spiegate le vele, non fu possibile far che il vascello si staccasse dal porto: pareva che ne fosse trattenuto dalla remora 1. Il padrone della nave, ch’era quasi disperato, si mise a dormire per la stanchezza, e in sogno gli apparve una fata, che gli disse: «Sai perché non potete più staccarvi dal porto? Perché il principe, che viene con voi, ha mancato alla promessa verso la figlia, ricordandosi di tutte, tranne del sangue proprio». Appena svegliato, il capitano raccontò il sogno al principe, che, confuso per la mancanza commessa, andò alla grotta delle fate, e, raccomandata loro la figliuola, le pregò di mandarle qualche dono. Ed ecco uscir fuori dalla spelonca una bella giovane, che pareva un gonfalone2, e gli disse di ringraziare la figliuola della buona memoria, e che se la passasse lieta per amor suo. Con queste parole, gli porse un dattero, una zappa, un secchietto d’oro e un asciugatoio di seta: il dattero da esser piantato, e le altre cose per coltivarlo e curarlo. Il principe, meravigliato di questi doni, salutò la fata, e tornò al suo paese; dove diede alle figliastre le cose che avevano desiderate e in ultimo diede alla figlia il dono della fata. Zezolla, felice da non stare nella pelle, piantò il dattero in un bel vaso e mattina e sera lo zappettava, lo innaffiava e lo asciugava col tovagliolo di seta. Con queste cure, il dattero crebbe in quattro giorni alto come una donna, e ne venne fuori una fata, che domandò alla fanciulla: «Che cosa desideri?» Zezolla rispose che desiderava uscire qualche volta di casa, senza che le sorelle lo sapessero. Rispose la fata: «Ogni volta che ti piaccia, vieni alla pianta e dille:
Dattero mio dorato,
con la zappetta d’oro t’ho zappato;
con il secchietto d’oro, innaffiato;
con la fascia di seta t’ho asciugato.
Spoglia te e vesti me!
Quando poi vorrai spogliarti, cambia l’ultimo verso e di’: Spoglia me e vesti te!
Venne un giorno di festa, e le figliuole della maestra erano andate in processione fuori di casa, tutte spampanate, agghindate e imbellettate, tutte nastrini, campanellini gingillini, tutte fiori odori cose e rose. Zezolla corse allora dalla sua pianta, pronunziò le parole insegnatele dalla fata e subito fu sistemata come una regina, sopra un cavallo con dodici paggi lindi e pinti, e andò anche lei dove erano le sorelle, che non la riconobbero, ma si sentirono venire l’acquolina in bocca per le bellezze di questa splendente colomba.
La sorte volle che nello stesso luogo capitasse il re, che alla vista della straordinaria bellezza di Zezolla rimase incantato, e ordinò al suo servitore più fedele di informarsi di quella bellezza, chi fosse e dove abitasse.
Il servitore si mise subito a seguirla. Ma lei, che s’accorse dell’agguato, gettò una manciata di monete d’oro, che s’era fatte dare dal dattero per questo scopo; e il servitore, adocchiati quei pezzi luccicanti, si scordò di seguire il cavallo, fermandosi a raccogliere i denari. Zezolla entrò in casa, si spogliò rapidamente nel modo in cui la fata l’aveva istruita; arrivarono poi le sei sorellastre, che per farle invidia raccontarono le cose belle, che avevano viste alla festa.
Il servitore, intanto, tornò dal re e gli raccontò il fatto dei denari, quello si arrabbiò molto e gli urlò che, per quattro monete, aveva venduto il suo piacere, e che, a qualsiasi costo doveva fare in modo nella prossima festa di sapere chi fosse quella bella giovane e dove si trovava quel bel uccello.
Venne l’altra festa e le sorelle, uscendo tutte belle ed eleganti, lasciarono la disprezzata Zezolla al focolare; e lei subito corse al dattero, disse le solite parole, ed ecco venire fuori una schiera di damigelle, chi con lo specchio, chi con la boccetta d’acqua di zucca, chi col ferro per arricciare, chi col rossetto, chi col pettine, chi con gli spilli, chi con le vesti, chi con collane e pendenti. E tutte le si misero attorno, la fecero bella come un sole, e la posero in una carrozza a sei cavalli, accompagnata da staffieri e paggi in livrea. E arrivata nello stesso luogo dell’altra volta, aggiunse meraviglia nel cuore delle sorelle e fuoco nel petto del re.
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( Testo in Giambattista Basile Lo cunto de li cunti, a cura di Miche Rank, Garzanti, 2013, pp.124-139)
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