Ortensio Zecchino, Perché non possiamo non dirci “cristiani”. Letture e dispute sul celebre saggio di Benedetto Croce, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2024, pagine 255, euro 18,00. Sia la Prefazione (pagine 11-15) di Eugenio Mazzarella - filosofo e, come si autodefinisce, «uomo cristiano… alla trascendenza ragionevolmente obbligato da quel che vedo nell’immanenza» (pagina 13), sia la Postfazione di Dino Cofrancesco (pagine 231-249: un vero saggio dopo il saggio!) che precisamente, come si legge nel titolo, offre «un modesto non filosofico commento al saggio di Ortensio Zecchino» (pagina 231), già mettono bene, seppure sinteticamente, in evidenza i vari profili emergenti nella ricerca di Ortensio Zecchino. Soprattutto enucleano i temi di fondo del saggio, che Benedetto Croce pubblicò dieci giorni dopo una notte insonne del 16 agosto 1942, nel corso della quale gli balenò anche l’idea di scriverlo (pagina 5). Comparso su “La Critica” del 20 novembre 1942, con il famoso titolo Perché non possiamo non dirci “cristiani” (pagina 6), di questo saggio di Croce, redatto non senza «travaglio… in quei tempi terribili» (pagina 88, numero 79), Zecchino - convinto fondatamente che esso non vada letto isolatamente, bensì «in un continuum con gli altri della stessa stagione» (pagina 196), «nel contesto degli scritti usciti dalla penna di Croce in quei terribili anni tra agonia del fascismo e alba democratica» (pagina 138) -, esamina, dunque, le premesse, i contenuti e gli esiti; e di esso, fin dalle prime battute, chiarisce testo e contesto, come in una scena iniziale di un’azione teatrale, di cui il prosieguo delle pagine offrirà un’analisi meticolosa e un informatissimo svolgimento analitico, frutto anche di consultazioni d’archivio di cui si dà conto puntualmente nel corso dell’avvincente esposizione. Quello di Croce fu un saggio a cui arrise «una fortuna straordinaria», essendo peraltro edito «nel bel mezzo di una guerra “mondiale”», in un’«Europa» che «appariva ormai nazificata» (pagina 9) e allorché «nella primavera di quel ’42 erano cominciati a manifestarsi i primi scricchiolii del regime» fascista (pagina 10). Si andava ipotizzando la futura organizzazione di un Ordine nuovo, che coinvolgeva partiti, intellettuali e perfino la santa Sede. Ci ricorda il volume: «Nell’Università cattolica di Milano già alla fine del 1941 un gruppo di “professorini” aveva cominciato a riunirsi intorno a Giuseppe Dossetti… Nell’agosto del 1941 da Ventotene era partito il manifesto Per un’Europa libera e unita di Spinelli, Rossi e Colorni… Nel settembre di quel 1942 Alcide De Gasperi, con un manipolo di volontari, fondò a Milano la Democrazia cristiana, nella casa di Enrico Falk» (pagina 11). In seguito, i peculiari rapporti di Croce con il “caro De Gasperi” saranno intensi (l’ultima lettera di Croce a lui è del 25 gennaio 1951), come si vedrà particolarmente, morto Croce il 20 novembre 1952, nell’orazione in memoriam pronunciata da De Gasperi, in cui, come attesta la figlia, la voce commossa del padre manifestò i suoi sentimenti verso il “prezioso amico” (pagina 195). La lunga e informata ricognizione di Zecchino si conclude con la convincente osservazione che il saggio di Croce «non può essere letto isolatamente, ma in un continuum con gli altri della stessa stagione» (pagina 196); ovvero, «il saggio, per il tempo in cui fu scritto e per l’alto profilo impressogli, volle essere un appello al mondo… ma volle anche costituire… una forte motivazione ideologica per coagulare in Italia un’alleanza politica tra le forze sinceramente sensibili alla difesa della libertà» (pagina 201) Questo il contesto, nel quale vanno capite le dispute che lo scritto crociano susciterà e, periodicamente, suscita ancora. Zecchino le esamina pressoché tutte, offrendo comunque al lettore una lezione di metodo. Infatti, da un lato, si deve approfondire lo scritto, tenendo conto dello stato d’animo di Croce e delle cose già manifestate fin dalla Filosofia della pratica del 1908 (pagina 70) – il filosofo aveva già fatto cenno ad alcuni aspetti nel Soliloquio di un vecchio filosofo del 1942 (pagina 66), e vi aveva posto come le premesse in un suo saggio del 1940, intitolato Il beneficio di Cristo (pagina 68). In sintesi, Croce «si sentiva gravato dal dovere di non tacere e di far sentire la sua voce» (pagina 13). Dall’altro lato, annota e realizza Zecchino, si deve fare la pignola ricostruzione di tutti gli interventi interpretativi, anche critici, che furono suscitati dal grande clamore generato dal saggio crociano (pagina 15), a partire dall’esame dell’«argomento principe di parte cattolica». In questa parte, s’ipotizzò «che dietro l’apertura crociana si celava – cosa scontata – una visione storicistica e immanentistica, in insanabile contrasto con la visione trascendente propria del cristianesimo» (pagina 15); ma anche da parte laica, non mancarono riserve, come la vera e propria stroncatura del saggio crociano, che fu redatta da Mario Pannunzio, il quale giunse a scrivere che «Quel saggio è sbagliato persino nel titolo: quando mai un filosofo può parlare al plurale?» (pagina 15). D’altra parte, continua Zecchino, bisogna rileggere il saggio crociano nella luce degli scritti successivi da cui, si legge testualmente, proviene «un’illuminazione ancora più potente» (pagina 73): dal breve scritto del 1951 – una recensione a uno scritto di Cristopher Dowson su religione e cultura occidentale (pagina 73) fino a tutti gli interventi che riprendono e rilanciano i temi della finis Europae e, con Osvald Spengler, della fine stessa dell’Occidente. Viene offerto, così, un apporto peculiare alla discussione, che potremmo denominare escatologica, e che Zecchino esamina meticolosamente, alla luce del travaglio di Croce in quei tempi terribili: un travaglio descritto dai primi anni cinquanta del Novecento al terzo decennio del secolo ventunesimo (confronta pagina 88, numero 79) circa il problema del male (confronta pagine78 ss.), grazie a cui Croce potrà approdare, dopo la stagione bellica, a «una ritrovata serenità filosofica» (pagina 86). I capitoli del volume si dipanano, perciò, davanti ai nostri occhi, esaminando i diversi momenti della discussione, le prese di distanza, i distinguo, le adesioni: dalla prima stizzita reazione da parte fascista, di cui suggeritore era stato don Giuseppe De Luca, all’intervento di Giovanni Gentile, il quale pubblica il saggio La mia religione 9.2.1943), nel quale afferma perentoriamente: «io sono cristiano […] io sono cattolico» (pagina 22). Zecchino, in merito a quest’intervento “dialettico” di Gentile (i cui rapporti con Croce si erano incrinati per dissensi filosofici e poi erano diventati antitetici nel 1925, allorché Gentile si spostò sulla sponda del fascismo e Croce dell’antifascismo) manifesta una sua precisa tesi: Gentile, insomma, aveva letto il saggio di Croce e, in qualche modo, risponde a certe sue affermazioni «che finiranno per attirare l’attenzione di lettori e critici, benevoli e non, che sembrano dettati una vis polemica» (pagina 25). Circa la differente visione filosofica di Gentile, Zecchino esamina le successive critiche di Gentile a Croce, il cui interesse essenziale Gentile identificava nello intelligere (= intellettualismo), che viene reputato un sofisma come l’uovo di Colombo, nel quale, cioè, «codesta realtà immaginata è un prodotto dell’umano pensiero» (pagina 29); a si sarebbe, appunto, potuto obiettare un «soggettivismo pullulante» e la «poligonia del cattolicesimo» (pagina 35). Gentile, ritornando al Manzoni, contesta la principale accusa che gli era venuta dal sant’Uffizio (ovvero, la religione pensata dal Gentile umanizzerebbe Dio o divinizzerebbe l’uomo) anche se, come osservava Del Noce, «nessun cattolico, anche colui che ammetta la poligonia giobertiana, potrà riconoscere la religiosità gentiliana come cattolica; perché in questa religione demitizzata viene ridotta a mito la rivelazione positiva stessa» (pagina 38). Quanto alle reazioni del mondo cattolico al saggio di Croce, Zecchino parte dei primi commenti, di carattere privato, di Karl Vossler (legato a Croce fin dal 1889), non senza successivamente osservare che il mondo cattolico offre una serie articolata di posizioni non unanimi: Giuseppe De Luca; Ernesto Buonaiuti; Guido Gonella su “L’Osservatore romano” del 14 gennaio 1943; i severi interventi della rivista dei Gesuiti “La civiltà cattolica”; il commento di Giuseppe Ricciotti; di Domenico Mondrone; la recensione di don Giuseppe De Luca su “Il Regno”; l’articolo di Giuseppe Scremin in “Studium”; il poco conosciuto commento di Giuseppe Sturzo affidato, il 15 luglio 1943, alla rivista americana “People and Freedom”: data la rilevanza di questo commento, Zecchino, che si rivela rigoroso lettore dei testi originali e non solo delle versioni italiane, riporta il testo inglese originale a pagina 58, numero 80). In sostanza, di fronte alla posizione dello scritto crociano, questo variegato mondo cattolico «mostrò inizialmente un certo disorientamento» (pagina 41), ma non vietò, prima a Sturzo e poi, più evidentemente, a padre Vincenzo Cilento, di notare, da parte di Sturzo. che «è possibile essere buoni cristiani sia dentro che fuori la Chiesa» (pagina 59) e, dieci anni dopo, da parte di padre Cilento ,che «”tra i grandi spiriti e Dio c’è una comunione diretta”, affermazione che, negando l’imprescindibile mediazione della Chiesa, apparve appunto eretica» (pagina 59) In sostanza, Zecchino si dichiara fondatamente convinto che il saggio crociano debba essere correlato ad alcune precedenti sue anticipazioni, affidate ai saggi di Filosofia della pratica (1908) e a Storia e critica della storiografia (confronta pagina 45, numero 58) e se ne debba, altresì, correlarne l’intento con altri scenari...
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