Rivista Militare 1 2023, Gastone BRECCIA - Ortona, la Stalingrado d'Italia.
Feb 7, 2024 ·
8m 41s
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Ortona, la Stalingrado d’Italia Sono onorato di dare avvio con questo breve contributo alla mia collaborazione con la Rivista Militare: una rubrica che toccherà, ogni volta, un tema specifico che...
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Ortona, la Stalingrado d’Italia
Sono onorato di dare avvio con questo breve contributo alla mia collaborazione con la Rivista Militare: una rubrica che toccherà, ogni volta, un tema specifico che mi auguro possa presentare motivi di interesse sia per gli specialisti che per gli appassionati. Non c’è che l’imbarazzo della scelta: la storia delle guerre è un libro aperto, ricchissimo, terribile, da cui non si smette di imparare.
Un inferno a tre dimensioni. “Gli edifici di una città sono come barriere frangiflutti. Spezzano le formazioni nemiche e le costringono a incolonnarsi lungo le strade. Per questo dobbiamo occupare saldamente le costruzioni più solide, stabilendovi piccole guarnigioni capaci di far fuoco a 360° nel caso in cui vengano accerchiate”. Sono parole del generale Chuikov, comandante della 62a armata sovietica a Stalingrado; ma frasi simili potrebbe averle pronunciate cinquant’anni dopo un guerrigliero ceceno asserragliato in un condominio di Grozny, o nel 2014 un miliziano curdo tra le rovine di Kobane. Il combattimento nei centri abitati ha caratteristiche proprie che rimangono simili nel tempo, perché sono il prodotto riflesso delle opportunità offerte da un terreno creato dall’uomo per scopi pacifici, ma capace di trasformarsi in uno scenario di guerra difficile da dominare: un inferno a tre dimensioni. Il generale Chuikov sottolineava uno solo degli aspetti cruciali della lotta in città, ovvero la tendenza delle forze attaccanti a “canalizzare” la propria spinta offensiva lungo le poche vie sgombre da ostacoli e macerie; ma è l’estensione verticale del campo di battaglia che costituisce l’elemento cruciale della guerra nelle aree urbane. I soldati sono abituati a ragionare in termini di avanzata o ritirata; da quando esiste l’aviazione il pericolo (o l’aiuto) possono venire anche dal cielo, ma si tratta comunque, per il fante, di un fattore esterno, sul quale può esercitare un controllo limitato. Tra gli edifici di una città gli uomini devono abituarsi invece a fare i conti con la terza dimensione: controllare il piano terreno di una casa non significa aver conquistato l’intera posizione, né avere superato le difficoltà e i rischi maggiori di un’azione tattica. La “Stalingrado d’Italia”. All’inizio di dicembre del 1943 l’8a armata britannica del generale Montgomery era all’offensiva nel settore adriatico della penisola. Mentre l’8a divisione indiana e la 2a neozelandese avanzavano nell’entroterra, incontrando una tenace resistenza nemica nella zona del villaggio di Orsogna, sulla costa andò all’attacco la 1a divisione canadese del generale Christopher Vokes, che in dodici giorni di duri combattimenti riuscì a superare la linea difensiva allestita dalla 90a Panzergrenadieren lungo il fiume Moro. Il 20 dicembre le avanguardie canadesi raggiunsero la cittadina portuale di Ortona, dove il comando germanico aveva appena fatto affluire un battaglione di paracadutisti (il II/3°FJ, ovvero il II battaglione del 3° reggimento Fallschirmjäger) per rinforzare il fianco sinistro degli esausti Panzergrenadieren. Invece di ritirarsi fino alla successiva linea difensiva, predisposta lungo il corso del fiume Riccio, i circa 800 uomini del II/3°FJ riuscirono a trasformare in pochi giorni il centro abitato di Ortona in una vera e propria fortezza: vennero eseguite demolizioni per bloccare le strade principali, piazzate trappole antiuomo e anticarro, scavate trincee di collegamento tra i caposaldi, aperti con l’esplosivo passaggi nelle mura perimetrali delle case per evitare di doversi esporre al tiro nemico, approntati nidi di mitragliatrice e postazioni di cecchini, occultati pezzi anticarro tra le macerie. La battaglia per Ortona durò una settimana, dal 21 al 28 dicembre 1943. La 2a brigata di fanteria canadese attaccò con due battaglioni (il 1° del Loyal Edmonton Regiment e il 1° dei Seaforth Highlanders of Canada), appoggiati dai carri Sherman del 12° reggimento corazzato (Three Rivers Regiment), che riuscirono a raggiungere i sobborghi settentrionali della cittadina dopo combattimenti durissimi. Le perdite furono severe sia tra gli attaccanti che tra i difensori – i canadesi ebbero 104 morti e 171 feriti, e tra le rovine di Ortona raccolsero almeno un centinaio di caduti tedeschi – ma il II/3°FJ fu costretto ad abbandonare la città e ripiegare circa tre chilometri più a settentrione, sulla riva sinistra del Riccio. I canadesi avevano conquistato quella che già allora venne definita da un corrispondente americano la piccola “Stalingrado d’Italia”; la loro vittoria non ebbe però risultati strategici di rilievo, perché Montgomery si rese di non poter chiedere altri sacrifici alle proprie truppe nel cuore dell’inverno, con la pioggia che ingrossava i fiumi e il fango che ostacolava le operazioni dei mezzi corazzati. Anche per questo è un episodio quasi dimenticato: persino uno dei migliori saggi pubblicati sulla campagna d’Italia, Circles of Hell di Eric Morris, dedica alla lotta per Ortona solo queste poche righe: «il II/3°FJ decise di resistere in città. Fu un classico esempio delle tattiche difensive tedesche al loro meglio, e i Canadesi non ebbero altra scelta che diventare esperti di quella che in seguito sarebbe stata definita FIBUA, “combattimento in zone edificate”» [1]. In realtà, la battaglia di Ortona merita di essere ricordata proprio per il ruolo che ebbe nel permettere alle forze alleate di acquisire conoscenze e capacità tattiche essenziali a condurre efficacemente i combattimenti nei centri abitati. I canadesi impararono ad operare in squadre di pochi elementi, pronte a fornirsi supporto reciproco, e a utilizzare il sostegno dei carri armati in maniera appropriata, ovvero come “artiglieria d’assalto”; compresero come fosse essenziale non aggirare ma attraversare i singoli edifici, aprendo passaggi al loro interno con gli esplosivi (ribattezzati ratholes, “tane di topo”); si abituarono a gestire la terza dimensione iniziando ad attaccare i caseggiati dai piani alti; si specializzarono nell’impiego di bombe a mano e lanciagranate, scoprendo nel corso dei combattimenti come persino il PIAT (Projector, Infantry, Anti-Tank: lanciagranate anticarro per la fanteria) che avevano in dotazione, mediocre nel ruolo anticarro per cui era stato progettato, poteva rivelarsi di grande utilità come arma da appoggio ravvicinato nei combattimenti casa per casa. In altre parole, la piccola “Stalingrado d’Italia” fu una preziosa scuola di guerra urbana, e le lezioni apprese tra le rovine di Ortona non vennero dimenticate.
[1] E. Morris, Circles of Hell. The War in Italy 1943-1945, London, Hutchinson, 1993, p. 224. Maggior rilievo in E. Gooderson, A Hard Way to Make a War. The Allied Campaign in Italy in the Second World War, London, Conway, 2008, pp. 246-247 e pp. 311-312. Purtroppo poco conosciuto il saggio di M. Patricelli, La Stalingrado d’Italia. Ortona 1943: una battaglia dimenticata, Torino, UTET Università, 2002.
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Sono onorato di dare avvio con questo breve contributo alla mia collaborazione con la Rivista Militare: una rubrica che toccherà, ogni volta, un tema specifico che mi auguro possa presentare motivi di interesse sia per gli specialisti che per gli appassionati. Non c’è che l’imbarazzo della scelta: la storia delle guerre è un libro aperto, ricchissimo, terribile, da cui non si smette di imparare.
Un inferno a tre dimensioni. “Gli edifici di una città sono come barriere frangiflutti. Spezzano le formazioni nemiche e le costringono a incolonnarsi lungo le strade. Per questo dobbiamo occupare saldamente le costruzioni più solide, stabilendovi piccole guarnigioni capaci di far fuoco a 360° nel caso in cui vengano accerchiate”. Sono parole del generale Chuikov, comandante della 62a armata sovietica a Stalingrado; ma frasi simili potrebbe averle pronunciate cinquant’anni dopo un guerrigliero ceceno asserragliato in un condominio di Grozny, o nel 2014 un miliziano curdo tra le rovine di Kobane. Il combattimento nei centri abitati ha caratteristiche proprie che rimangono simili nel tempo, perché sono il prodotto riflesso delle opportunità offerte da un terreno creato dall’uomo per scopi pacifici, ma capace di trasformarsi in uno scenario di guerra difficile da dominare: un inferno a tre dimensioni. Il generale Chuikov sottolineava uno solo degli aspetti cruciali della lotta in città, ovvero la tendenza delle forze attaccanti a “canalizzare” la propria spinta offensiva lungo le poche vie sgombre da ostacoli e macerie; ma è l’estensione verticale del campo di battaglia che costituisce l’elemento cruciale della guerra nelle aree urbane. I soldati sono abituati a ragionare in termini di avanzata o ritirata; da quando esiste l’aviazione il pericolo (o l’aiuto) possono venire anche dal cielo, ma si tratta comunque, per il fante, di un fattore esterno, sul quale può esercitare un controllo limitato. Tra gli edifici di una città gli uomini devono abituarsi invece a fare i conti con la terza dimensione: controllare il piano terreno di una casa non significa aver conquistato l’intera posizione, né avere superato le difficoltà e i rischi maggiori di un’azione tattica. La “Stalingrado d’Italia”. All’inizio di dicembre del 1943 l’8a armata britannica del generale Montgomery era all’offensiva nel settore adriatico della penisola. Mentre l’8a divisione indiana e la 2a neozelandese avanzavano nell’entroterra, incontrando una tenace resistenza nemica nella zona del villaggio di Orsogna, sulla costa andò all’attacco la 1a divisione canadese del generale Christopher Vokes, che in dodici giorni di duri combattimenti riuscì a superare la linea difensiva allestita dalla 90a Panzergrenadieren lungo il fiume Moro. Il 20 dicembre le avanguardie canadesi raggiunsero la cittadina portuale di Ortona, dove il comando germanico aveva appena fatto affluire un battaglione di paracadutisti (il II/3°FJ, ovvero il II battaglione del 3° reggimento Fallschirmjäger) per rinforzare il fianco sinistro degli esausti Panzergrenadieren. Invece di ritirarsi fino alla successiva linea difensiva, predisposta lungo il corso del fiume Riccio, i circa 800 uomini del II/3°FJ riuscirono a trasformare in pochi giorni il centro abitato di Ortona in una vera e propria fortezza: vennero eseguite demolizioni per bloccare le strade principali, piazzate trappole antiuomo e anticarro, scavate trincee di collegamento tra i caposaldi, aperti con l’esplosivo passaggi nelle mura perimetrali delle case per evitare di doversi esporre al tiro nemico, approntati nidi di mitragliatrice e postazioni di cecchini, occultati pezzi anticarro tra le macerie. La battaglia per Ortona durò una settimana, dal 21 al 28 dicembre 1943. La 2a brigata di fanteria canadese attaccò con due battaglioni (il 1° del Loyal Edmonton Regiment e il 1° dei Seaforth Highlanders of Canada), appoggiati dai carri Sherman del 12° reggimento corazzato (Three Rivers Regiment), che riuscirono a raggiungere i sobborghi settentrionali della cittadina dopo combattimenti durissimi. Le perdite furono severe sia tra gli attaccanti che tra i difensori – i canadesi ebbero 104 morti e 171 feriti, e tra le rovine di Ortona raccolsero almeno un centinaio di caduti tedeschi – ma il II/3°FJ fu costretto ad abbandonare la città e ripiegare circa tre chilometri più a settentrione, sulla riva sinistra del Riccio. I canadesi avevano conquistato quella che già allora venne definita da un corrispondente americano la piccola “Stalingrado d’Italia”; la loro vittoria non ebbe però risultati strategici di rilievo, perché Montgomery si rese di non poter chiedere altri sacrifici alle proprie truppe nel cuore dell’inverno, con la pioggia che ingrossava i fiumi e il fango che ostacolava le operazioni dei mezzi corazzati. Anche per questo è un episodio quasi dimenticato: persino uno dei migliori saggi pubblicati sulla campagna d’Italia, Circles of Hell di Eric Morris, dedica alla lotta per Ortona solo queste poche righe: «il II/3°FJ decise di resistere in città. Fu un classico esempio delle tattiche difensive tedesche al loro meglio, e i Canadesi non ebbero altra scelta che diventare esperti di quella che in seguito sarebbe stata definita FIBUA, “combattimento in zone edificate”» [1]. In realtà, la battaglia di Ortona merita di essere ricordata proprio per il ruolo che ebbe nel permettere alle forze alleate di acquisire conoscenze e capacità tattiche essenziali a condurre efficacemente i combattimenti nei centri abitati. I canadesi impararono ad operare in squadre di pochi elementi, pronte a fornirsi supporto reciproco, e a utilizzare il sostegno dei carri armati in maniera appropriata, ovvero come “artiglieria d’assalto”; compresero come fosse essenziale non aggirare ma attraversare i singoli edifici, aprendo passaggi al loro interno con gli esplosivi (ribattezzati ratholes, “tane di topo”); si abituarono a gestire la terza dimensione iniziando ad attaccare i caseggiati dai piani alti; si specializzarono nell’impiego di bombe a mano e lanciagranate, scoprendo nel corso dei combattimenti come persino il PIAT (Projector, Infantry, Anti-Tank: lanciagranate anticarro per la fanteria) che avevano in dotazione, mediocre nel ruolo anticarro per cui era stato progettato, poteva rivelarsi di grande utilità come arma da appoggio ravvicinato nei combattimenti casa per casa. In altre parole, la piccola “Stalingrado d’Italia” fu una preziosa scuola di guerra urbana, e le lezioni apprese tra le rovine di Ortona non vennero dimenticate.
[1] E. Morris, Circles of Hell. The War in Italy 1943-1945, London, Hutchinson, 1993, p. 224. Maggior rilievo in E. Gooderson, A Hard Way to Make a War. The Allied Campaign in Italy in the Second World War, London, Conway, 2008, pp. 246-247 e pp. 311-312. Purtroppo poco conosciuto il saggio di M. Patricelli, La Stalingrado d’Italia. Ortona 1943: una battaglia dimenticata, Torino, UTET Università, 2002.
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