Giordano Bruno, il folle che fu scomunicato non solo dalla Chiesa Cattolica, ma anche da calvinisti e luterani
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show moreGIORDANO BRUNO, IL FOLLE CHE FU SCOMUNICATO NON SOLO DALLA CHIESA CATTOLICA, MA ANCHE DA CALVINISTI E LUTERANI di Giovanni Tortelli
Giordano Bruno visse esattamente il ruolo che si era imposto, quello dell'intellettuale puro ma scaltro, trasfigurato dallo studio della filosofia e delle scienze ma maudit fino in fondo, fino al punto di rifiutare il crocifisso sul rogo che l'avrebbe consumato all'alba del 17 febbraio 1600 in Campo de' Fiori.
Gesto coerente con lo spirito antireligioso che lo aveva animato per tutta la vita. Ebbe certamente l'intelligenza, l'erudizione, la prodigiosa memoria e la sete per un sapere che non conosceva limiti nemmeno morali, ebbe la passione e la forza di carattere, ma non fu mai un uomo di fede nonostante l'abito domenicano rivestito da quando aveva quindici anni e il sacerdozio conseguito con tutti i crismi.
Nato a Nola nel 1548, già al tempo del noviziato a Napoli era stato denunciato per aver difeso l'arianesimo, per aver dubitato che Padre e Figlio nella SS. Trinità avessero la medesima natura, per aver confuso lo Spirito Santo con l'«anima dell'universo» e quindi con le filosofie pitagoriche, e per esser uso a disprezzare le immagini dei santi.
Nel 1576 fuggì a Roma ma anche da lì dovette ben presto allontanarsi perché raggiunto dalla denuncia di aver occultato delle opere di san Giovanni Crisostomo e di san Girolamo perché annotate con le glosse proibite di Erasmo da Rotterdam, e forse anche perché coinvolto in qualche modo nell'omicidio di un confratello (V. Spampanato, Documenti della vita di Giordano Bruno, Olschki 1933, pp. 125-126).
Fu a questo punto che lasciò l'abito domenicano. Si diresse quindi a Genova dove visse impartendo lezioni di grammatica e di astronomia. In quest'epoca Bruno manifestò anche il passaggio al materialismo filosofico, e in astronomia all'eliocentrismo copernicano. Ma le peregrinazioni dell'ex domenicano erano solo agli inizi: sempre nel 1576, da Genova si spostò in varie città, per raggiungere infine Ginevra, dove trovò l'aiuto del marchese de Vico che là aveva radunato una piccola comunità di napoletani passati al protestantesimo.
Giunto a Ginevra nel 1578, Bruno si fece subito calvinista, si iscrisse alla "chiesa protestante italiana" e si immatricolò come studente di teologia. Anche se egli vedeva ormai la religione non come mezzo di manifestazione di verità ma solo come strumento uniformante e repressivo della società, si rendeva conto che senza un'appartenenza religiosa non era possibile convivere in alcun consesso sociale. In breve tempo però riuscì a mettersi nei guai anche coi calvinisti, cioè con la quasi totalità della popolazione ginevrina: arrestato per diffamazione nel 1579, fu processato e scomunicato e obbligato alla ritrattazione.
MORDI E FUGGI EUROPEO
Lasciata Ginevra passò da Lione per poi stabilirsi per due anni a Tolosa, città cattolica, sede di un'importante università, presso la quale fu lettore del De anima di Aristotele. Ma dopo essersi attirato l'ostilità degli aristotelici per la sua adesione all'ars combinatoria di Lullo, nel 1581 passò a Parigi dove insegnò con profitto e la sua fama giunse fino al re Enrico III di Valois che lo fece "lettore straordinario e provisionato", cioè stipendiato. A Parigi scrisse il Candelaio, commedia che descrive un mondo assurdo, violento e corrotto, i cui protagonisti sono la magia e l'alchimia, l'amore infedele e la beffa.
Nell'aprile 1583 giunse a Londra come accompagnatore dell'ambasciatore francese de Castelnau. A Londra, Bruno pubblicò tre opere in latino che avevano come oggetto la memoria e la disposizione di tutte le arti e scienze (ars combinatoria, cabala) in formule che assicurassero un sapere sempre più illimitato e i Dialoghi italiani, dedicati alla metafisica del sapere, attraversati da quell'amarezza già evocata nel celebre ossimoro del Candelaio: "In tristitiahilaris, in hilaritatetristis". La pubblicazione di quest'opera sollevò un vespaio e dovette scappare anche da Londra, rientrando in Francia.
A Parigi continuò la sua denigrazione contro la Chiesa cattolica e contro i Sacramenti e in special modo l'Eucaristia «ignoti a san Pietro e a san Paolo» (A. Verrecchia, Giordano Bruno: la falena dello spirito, Donzelli 2002).Si inimicò anche l'ambiente dei sorbonisti che all'epoca era totalmente di formazione aristotelica e decise perciò di partire per la Germania, prima a Magonza e poi a Wittenberg.
A Wittenberg però la fazione calvinista della città riconobbe in lui l'antico avversario di Ginevra e gli fu subito ostile e così, pur dopo aver composto l'Oratio valedictoria nella quale esaltava Lutero, Bruno dovette riparare a Praga presso re Rodolfo II d'Asburgo che lo accolse benevolmente e al quale dedicò lo scritto Articuli centum et sexaginta.
Nel 1589, da Praga si trasferì a Helmstädt (Bassa Sassonia) dove fu incoraggiato dal principe Enrico Giulio figlio del regnante duca di Braunschweig. Qui si occupò ancora di mnemotecnica, di cosmologia e di metafisica a cui aggiunse anche quattro trattati di magia (De Magia; Theses de magia; De magia mathematica; De rerum principiis et elementis et causis). Per motivi ignoti fu scomunicato dal sovrintendente della chiesa luterana della città, ottenendo il primato di essere scomunicato contemporaneamente da tre confessioni religiose, la cattolica, la calvinista e la luterana.
Nell'aprile 1590 lasciò Helmstädt e giunse a Francoforte dove scrisse, fra le altre cose, De triplici minimo et mensura, un testo che sviluppava ancor più i suoi studi sulla matematica e sulla memoria e che giunse nelle mani del nobile veneziano Giovanni Mocenigo, il quale invitò Bruno a Venezia. Questi accolse subito l'offerta, forse perché vedeva nella Repubblica di san Marco la realizzazione dei suoi ideali di potenza e libertà.
Nel marzo 1592 cominciò a impartire a Mocenigo le lezioni concordate ma il giovanotto ne rimase deluso e chiese a Bruno la restituzione del compenso che gli aveva già elargito. Fu la rottura. Quando Bruno stava per lasciare definitivamente Venezia per tornare a Francoforte, Mocenigo, la notte del 21 maggio 1592, lo fece sequestrare dai suoi servitori dopo averlo denunciato al Sant'Uffizio.
LO SCONTATO FINALE
Mocenigo accusava Bruno di non credere né alla transustanziazione, né alla distinzione di Dio in Tre Persone, inoltre di credere nella pluralità dei mondi e di avere tanto in odio la Chiesa da incitare gli Stati alla confisca di tutti i beni ecclesiastici (Spampanato, cit., pp. 59 ss.).
Queste accuse erano tanto più gravi perché confermavano tutti i capi d'imputazione che Bruno aveva collezionato fin dai tempi del suo noviziato, classificandolo come un recidivo. Quando Giordano Bruno fu condotto in prigione, furono sequestrate anche tutte le sue carte. Non uscì più dal carcere e Roma ne ottenne ben presto l'estradizione da Venezia.
Fondamentalmente, Bruno fu per tutta la sua vita il nemico giurato del principio d'autorità, che egli vedeva realizzato in tutte le religioni ma in special modo in quella cattolica. Per Bruno infatti la religione era veicolo di verità, che egli trovava invece unicamente nell'esercizio dell'intelligenza, quindi solo nella pratica della filosofia. A tal fine nello Spaccio de la bestia trionfante, dialogo londinese del 1584, cerca di espellere ("spaccio") dal cielo tutti i vizi riportandovi le virtù, in un collegamento diretto fra uomo, natura e Dio (ma quale Dio?), escludendo completamente ogni confessione religiosa.
Giordano Bruno divenne ben presto l'icona del libero pensatore immolato per i suoi ideali dall'oscurantismo cattolico. Più tardi, la nascente massoneria riconobbe in lui l'"indomito spirito di ricerca, ribelle a qualsiasi imposizione dogmatica, un ideale affine al libero pensiero su cui essa si fonda" (A. Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani 1984).
Il monumento eretto in suo onore in Campo de' Fiori, inaugurato il 9 giugno 1889, giorno di Pentecoste, fortemente voluto dalle forze anticlericali e massoniche, suscitò violentissime polemiche: papa Leone XIII chiese che la statua non fosse esposta al pubblico, il giorno dell'inaugurazione digiunò davanti alla statua di san Pietro e chiese che in Campo dei Fiori venisse eretta una cappella riparatoria.
Minacciò anche di lasciare Roma, minaccia che l'anticlericale Francesco Crispi, allora presidente del Consiglio, colse al volo per dichiarare che se il Papa se ne fosse andato da Roma non vi sarebbe tornato mai più. Nemmeno coi Patti Lateranensi del 1929 si riuscì ad abbattere la statua, più volte contestata anche da parte di Pio XII. Essa rimane come ricordo di una sfida alla Chiesa che percorre i secoli.
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